Le "bebop scales"
Le scale nel jazz: maneggiare con cura!
Molto spesso chi vuole imparare ad improvvisare viene informato sulle scale da usare in presenza di determinati accordi. Questo articolo contiene, a tale proposito, istruzioni più dettagliate che riguardano il "come" vengono utilizzate le scale nella routine jazzistica. Per iniziare a circoscrivere l’ambito di questo argomento ritengo sia utile separalo dal concetto di "composizione estemporanea" al quale troppo spesso la improvvisazione viene associata. Nella composizione, classicamente intesa, infatti, melodia e struttura armonica vengono progettate dal compositore in un corpo unico che non è suscettibile di interventi solistici. Nel Jazz, invece, l'azione del solista gode di un margine di libertà che deriva dal diradarsi dell' accompagnamento armonico che avviene secondo schemi che si sono evoluti insieme alla musica Jazz stessa e che aprono spazi di ambiguità armonica che il solista può utilizzare per ridisegnare la griglia armonica del brano che viene descritta attraverso le sigle accordali con larghissima approssimazione.
Ambiguità armonica
Approcciando l'improvvisazione in modo istintivo, ognuno può sperimentare che il modo più elementare di discostarsi dalla melodia principale di un brano, è quello di introdurre piccole variazioni nella melodia stessa. Ed è intuitivo pensare che l'introduzione di variazioni via via più elaborate non possa che avvenire, da principio, in momenti ben circoscritti all’interno della struttura come ad esempio una introduzione, un intermezzo strumentale o introducendo nella melodia qualche breve intervento che lasci intatta la riconoscibilità del brano originario. Ipotizzando che questo naturale percorso sia stato seguito anche dai primi improvvisatori di jazz, prima dell'avvento delle registrazioni discografiche in questo genere musicale (Nick La Rocca - 1917), possiamo farci una idea di come l'introduzione di variazioni abbia modificato, insieme alle melodie, anche il tessuto armonico dei brani stessi. Nei passaggi interessati da una variazione, infatti, viene spezzato il l'originario legame tra la melodia, ora variata, e l'accompagnamento armonico alla melodia stessa. Tale legame, progettato dal compositore del brano o facente parte di una prassi esecutiva consolidata se parliamo di ambito popolare, subisce perciò una modificazione che quindi interessa insieme alla melodia, anche la parte di sostegno della melodia costituita da basso, accordi, strumenti ritmici etc. Una volta introdotta una variazione dunque, in modo istintivo o premeditato che sia, il passaggio interessato subisce necessariamente una ulteriore modificazione dello stesso tessuto armonico nel quale va iscritta la variazione. Ma dato che le variazioni di cui stiamo parlando vengono introdotte, dai primi jazzisti, in modo estemporaneo, l'accompagnamento ritmico-armonico non può che divenire progressivamente più vago e meno predeterminato in modo di poter accogliere varie possibilità melodiche che potrebbero non essere compatibili con le formule di accompagnamento elaborate in partitura troppo specifiche e legate ad una melodia precisa. Immaginiamo ad esempio una orchestra nella quale tutti gli strumenti armonizzano la melodia con lo stesso identico ritmo della melodia principale in una sorta di "unisono" ritmico. Ciò, evidentemente, farebbe suonare una variazione come l'errore di uno strumento rispetto agli altri. Ecco perchè una variazione melodica non può che coincidere con spazi di ambiguità ritmica e armonica. In una composizione scritta, infatti, la melodia il basso e l’armonia formano un blocco unico nel quale lo spazio per delle variazioni si riduce al minimo (pur non essendo mai nullo) a meno che non vengano introdotti degli elementi di ambiguità. Nel Jazz delle origini tale ambiguità è ridotta al minimo quando i pianisti si avviano a scardinare la compattezza delle complicate linee del rag time magari ricostruite a memoria piuttosto che lette sullo spartito ( ciò che conduce alla nascita dello "stride piano"). Ma parallelamente il blues riporta nella musica tutta l’imprevedibilità di una struttura musicale estremamente elastica che nasce come accompagnamento a esecuzioni vocali nelle quali sono improvvisati anche i testi. Dico "riporta" perchè tale processo richiama fortemente tanti momenti della storia europea antecedenti alla nascita della notazione dei quali non possiamo avere memoria discografica ma dei quali la memoria si è poi continuata ad esprimere per tutta la durata della polifonia strumentale fino ed oltre la nascita dell'opera (...). Una ambiguità armonica leggermente più pronunciata è rintracciabile inoltre nelle tipiche improvvisazioni collettive di New Orleans.
Sta di fatto che nella musica jazz che poi si evolve da quelle prime vicende il solista guadagna un margine sempre maggiore per discostarsi dalla melodia principale che coincide con elementi di ambiguità che divengono poi strutturali della prassi jazzistica.
Alcuni di questi: La differenza di tessitura e di volume tra voce solista e accompagnamento, il diradarsi delle voci accordali di accompagnamento, la diminuzione degli strumenti di accompagnamento, un ritmo flessibile di accompagnamento slegato dalla scansione della melodia (la pulsazione continua del basso in 4 ad esempio), il diradarsi del ritmo di accompagnamento che lascia vuoti compatibili con interventi estemporanei, una elaborazione di sigle accordali che possano sostituire l’accompagnamento scritto favorendo l’evolversi di quelle formule ritmiche usuali (“comping”) che divengono parte della costituzione di un “gergo” da maneggiare, come qualunque altro linguaggio, con un margine di libertà.
Evolvere un “orecchio armonico”
Così i primi solisti scardinano le composizioni scritte con variazioni estemporanee o portano il blues e la sua imprevedibilità all’interno di alcune fra le forme in uso negli spettacoli in voga in America nel secondo 800. Questi spazi di ambiguità armonica si ampliano parallelamente alla evoluzione del Jazz e oggi ci troviamo alle prese con forme musicali dove l’improvvisazione ha raggiunto gradi di libertà estremi. Gestire questa libertà è cosa ardua ed è altamente consigliabile di procedere nella conquista di questo spazio con gradualità. Come dice Lee Konitz nell’articolo citato gia più volte su questo sito “ Noi iniziamo a suonare ad orecchio e finiamo (dopo anni di studio - ndr) per suonare ad orecchio di nuovo” (leggi articolo “ Back to basic” di David Kastin - Down Beat 1985). Quindi, dando per buona la visione di Konitz, il vero problema è quello di formare l’orecchio: per gestire l’ambiguità armonica bisogna sviluppare la capacità di riconoscere, mentre si suona, gli spostamenti armonici. L’improvvisazione è svolta soprattutto sul proprio strumento e, come ci insegnano le pratiche improvvisative dei grandi musicisti nei loro seminari, è sullo strumento che è immediatamente utile sviluppare una capacità di orientarsi nell’armonia di un brano. L'importanza di altre forme di “ear training” è fuori discussione ma eccede i limiti di questo discorso. Quindi, secondo questa visione del problema, per orientarsi nell’armonia di un brano bisogna sviluppare l’orecchio armonico in modo direttamente collegato alla pratica strumentale.
Cosa praticare sullo strumento
Fra le varie pratiche proposte in questo sito ce ne sono svariate provenienti da seminari tenuti da grandi musicisti.Quello che ho trovato più efficace sull’argomento “Scale” è Barry Harris sul quale rimando alla lettura di un’altra pagina di questo sito (leggi Barry Harris).
Volendo estrapolare quanto appreso in vari seminari (Brecker, Grossman, Nistico etc) in tema di scale e di “orecchio armonico” devo dire che questo viene da molti perseguito studiando materiale melodico, fondato sul gergo jazzistico, privato di buona parte dell’ambiguità armonica attraverso una scansione di crome. Ovvero suonando serie di crome in 4 /4 la successione continua dei tempi forti e deboli della battuta esplicita il peso armonico di tutte le note permettendo all’orecchio di individuare con certezza il suono dell’accordo che viene restituito dalla frase o scala.
Quindi, in accordo con tale visione, per sviluppare l’orecchio armonico sullo strumento bisogna suonare a crome scale e frasi elaborandole a mente sulla base di cliché di complessità crescente.
Le scale diatoniche
Le scale diatoniche sono direttamente collegate agli accordi che usiamo per descrivere, tramite le sigle, l’armonia di uno standard. Gli accordi costruiti sulla scala maggiore si dividono in tre gruppi distinti fra di loro per funzione armonica: gruppo di tonica, gruppo di sottodominante, gruppo di dominante. Ora, dato che nella scala maggiore l’elemento di maggiore tensione è costituito dall’intervallo di tritono che c’è tra la quarta della scala e la settima, i tre gruppi citati si distinguono tra di loro per la inclusione o meno di tale intervallo. Così il gruppo di tonica è formato dagli accordi che contengono solo la settima della scala o nemmeno quella (accordi del 1°, 3° e 6° grado), il gruppo di sottodominante dagli accordi che contengono solo la quarta della scala (accordi del 2° e 4° grado) ed infine il gruppo di dominante formato dagli accordi che contengono sia la quarta nota della scala che la settima e portano all’orecchio quindi il suono tensivo del tritono (5° e 7° grado).
Nello schema che segue ecco la ripartizione applicata agli accordi della scala di DO:
Gruppo di tonica: Cmaj7, Em7, Am7 (non contengono il FA)
Gruppo di sottodominante: Dm7,Fmaj7 (contengono il FA e non il SI)
Gruppo di dominante: G7, Bm7b5 (Accordi che contengono FA e SI )
Ora, dato che quando suoniamo una serie di crome sono le note in battere sui tempi forti a dettare l’armonia, ecco che se suoniamo la scala di Do maggiore e vogliamo che restituisca all’orecchio il suono dell’accordo di Cmaj7 ci troviamo nella situazione seguente:
Come si vede nella seconda battuta le note in battere che dettano all’orecchio l’armonia della frase sono FA, LA e DO e se proviamo a imporre tale scala sull’accordo di Cmaj7 ci troveremo nell’imbarazzante situazione di porre con forza il Fa del battere di misura 2 su tale accordo con scarsa soddisfazione auditiva dato che tale FA forma un tritono con il SI appena affermato in battere sul quarto quarto della battuta 1 e ciò restutisce un suono di dominante quanto mai opposto all’accordo di tonica che volevamo far sentire. Muovendosi in modo discendente il discorso non cambia:
Come si vede anche qui il Fa cade in battere e il MI che è nota accordale importante di Cmaj7 non è in evidenza aggravando ulteriormente la situazione. Questo avviene perché sul tempo di 4/4 le crome sono 8 per battuta mentre le note della scala sono 7 e quindi procedendo a crome sulla scala l’accordo sottolineato dai tempi forti della battuta in principio di frase cambia per spostarsi di gruppo e divenire dissonante rispetto all’accordo iniziale.
Quindi quando suoniamo una scala diatonica a crome da un certo punto in poi l’accordo restituito all’orecchio dalla scala cambia. Ci troviamo quindi nella necessità di acquisire il controllo di tale cambio.
Le scale "Bop"
A questo punto del ragionamento è facile capire la necessità di inserire uno o più cromatismi nella scala allo scopo di acquisire un controllo sulla sonorità armonica emessa dalla scala mentre la suoniamo. Di seguito ecco alcune formule di uso comune in questo senso.
In questo caso per far suonare la scala di DO su Cmaj7 il cromatismo usato più spesso è quello tra 5° e 6° grado:
La scala cosi modificata può essere eseguita in modo ascendente o discendente senza "rigirarsi" nel percorso. Partendo da tutti i gradi dispari (1-3-5-7) che corrispondono alle note dell'accordo di Cmaj7 il suono della scala sarà centrato su C. Va da se' che la stessa scala suonata a crome partendo dai gradi pari (2-4-6) suonerà enfatizzando il suono di dominante.
Ecco invece il prospetto delle scale con i cromatismi che Barry Harris spiega nei suoi seminari.
Suonando queste scale si ha la perfetta percezione dell’accordo segnato in sigla. Ciò educa l’orecchio e le mani a muoversi con più equilibrio sulle scale evitando quei capovolgimenti sgradevoli cosi caratteristici di tanti solisti alle prime armi che significano: scala giusta ma approccio sbagliato.
Naturalmente questo è solo uno dei tanti ingredienti necessari alla formazione di un improvvisatore il cui orecchio si forma grazie ad un serie di contributi che vanno individuati, io credo, con altrettanta esattezza. Un orecchio così educato può distaccarsi poi dalle formule precostituite ed avventurarsi verso atti creativi veri e propri. Un altro contributo importante del tipo di studio descritto è che l’inserimento dei cromatismi fa toccare, a chi suona, le note fuori tonalità riconducendole al suono dell’accordo voluto. Ciò, per chi impara, rappresenta un forte antidoto all’ansia che deriva dalla paura di toccare note sbagliate dato che in questo modo tutte le note e tutte le dita trovano la loro collocazione nella tonalità. Muoversi sullo strumento diventa così più agevole e ciò porta a sviluppare una tecnica più fluida e completa.
Il discorso sull'improvvisazione portato avanti in altri articoli di questo sito sviluppa gli elementi del ragionamento appena esposto in un altro concetto portante della improvvisazione che è la capacità di imporsi delle linee melodiche solidamente costruite su di un supporto armonico che lasci spazi di ambiguità. Dalla analisi dei soli di grandi improvvisatori scaturiscono spesso osservazioni sulla metrica delle frasi che vengono giudicate in anticipo o in ritardo sui cambi armonici. Questa visione fuorviante viene in questa sede invece sostituita da una sovrapposizione dei diversi approcci discendenti dal blues, dalla musica classica e da quello squisitamente jazzistico che senza soluzione di continuità trovano applicazione nell'azione dei musicisti storici che hanno aperto la strada dell'improvvisazione jazz. Questi concetti sono alla base delle pratiche utilizzate nelle lezioni on line.